Lentezza o Velocità? Come regolare i ritmi del nostro tempo: dall'elogio della tartaruga alla riflessività del sommo poeta

 Riceviamo e volentieri pubblichiamo

 

Note di costume

di Marisa Profeta De Giorgio 

FESTÍNA LENTE

È un ossimoro, affrettati lentamente, attribuito ad Augusto da Svetonio ma è anche un proverbio sapienzale di tutti i tempi: “Gatta furiosa fa i gattini ciechi”, “Chi va piano va sano e va lontano”, ....
Lo scelse Cosimo I Medici (1519 – 1574) quando tra l’umanità grandiosa medicea evocata da G. Vasari (1511 – 1574) sulla volta del Salone dei Cinquecento, in Palazzo Vecchio, a Firenze, fece inserire numerose tartarughe, che hanno sul carapace una gran vela gonfiata dal vento, accompagnate dalla scritta “festína lente”, simbolo del suo modo di agire e del suo pensiero.

La tartaruga è il simbolo della lentezza e le vele gonfiate dal vento della velocità dell’azione e insieme della poesia dell’azione. “Le vent se leve... il faut tenter de vivre” scriverà sulla soglia del Novecento Paul Valery (1871 – 1945).
Una serie di contraddizioni che, nel pensiero di Cosimo I volevano significare “pensa e rifletti prima di agire”.
I nostri antichi progenitori latini contrapponevano “otium” al termine “negotium” inteso come attività lavorativa; era il tempo libero dedicato alla riflessione, agli studi, al pensiero. “Scholé” chiamarono i Greci il tempo che passavano a parlare con Socrate, abile sostenitore della “maieutica”. Il motto “conosci te stesso”, sunteggia efficacemente il giusto processo cognitivo per individuare la propria vocazione, la virtù, la capacità, ciò per cui ciascuno è nato, realizzarle secondo misura, perchè se la si oltrepassa (hubris-arroganza) ci si prepara la rovina.
Viviamo in un mondo veloce dove il tempo sembra via via contrarsi, continuamente connessi, chiamati a rispondere in tempi brevi a e-mail, tweet e sms, ipersollecitati dalle immagini, in una frenesia visiva e cognitiva dai tratti patologici. Nel tentativo di imitare le macchine veloci andiamo incontro a frustrazioni e affanni.

Nel libro “Sbagliando non s’impara” la psicologa Sara Garofalo sostiene tra l’altro che “siamo bombardati da informazioni, che il nostro cervello non può controllare, non può cogliere che la superficie e senza profondità non può esserci creatività o, forse questa si indirizza a campi che non hanno nulla a che fare con la cultura, con l’arte, la poesia, la letteratura, ma piuttosto con la produttività e gli algoritmi”. Con un’immagine pittoresca, M. Fini ci immagina come Tantali bulimici, cui basterebbero pochi sorsi d’acqua per soddisfare la propria sete, ma che messi davanti a un lago, lo bevono tutto e ne muoiono (M. Fini: La piatta ipnosi di Facebook & C.).
Il nostro cervello è una macchina lenta, per la sua filogenesi possiede sia meccanismi ancestrali, rapidi di risposta all’ambiente, in gran parte automatici o semiautomatici, sia meccanismi lenti, frutto di ragionamento. In modo del tutto contraddittorio tuttavia, il trend delle società cosiddette avanzate, sembra
assegnare ai primi una posizione predominante ed è opinione comune che insistere sulla rivalutazione dei secondi significhi invertire la freccia del progresso, della nostra filosofia compresa la filosofia della scienza. Ma sarà stata per la sua lentezza che ha sempre sognato di costruirsi protesi – dalla ruota al
missile - con cui compensare questo handicap nella vita pratica.
Tuttavia la conquista della inversione di rotta dei ritmi esistenziali e produttivi non è stata uniforme nel corso dei secoli. A quasi duemila anni di distanza Cosimo I e Napoleone avrebbero impiegato lo stesso tempo per coprire il percorso che separa Firenze da Parigi: un paio di settimane a piedi, una
settimana in carrozza. Oggi basterebbe solo un paio di ore in aereo. È con l’avvento industriale che le tappe sono state accelerate; nel 1903 il primo volo dei fratelli Wright durò 59 secondi su una distanza di 760 metri; nel 1927

Lindberg riuscì a trasvolare l’Oceano Atlantico, da Parigi a New York, in 33 ore. Trentacinque anni dopo appena, nel 1969, N. Armstrong mise piede sul suolo della Luna e già nel 1903 il tema della velocità, come emblema della contemporaneità, si cristallizzò nel campo dell’arte nella formulazione della poetica futurista in un Manifesto in cui F. Tommaso Marinetti esemplificò il suo ideale di bellezza detenuta fino ad allora dalla “Nike” di Samotracia – inizio sec. II a.C., oggi al Louvre – in una fiammeggiante macchina da corsa con il suo cofano adorno di grossi tubi, simili a serpenti dall’alito esplosivo...un’automobile ruggente, che sembra sfrecciare sulla mitraglia.
Più recentemente a correre senza misericordia è stata la SARS 19 che ha pervaso tutta l’umanità, scontrandosi con la scienza che ha bisogno di tempi lunghi per approntare vaccini con verifiche sapienti per essere efficaci e senza danni collaterali. Ha sparigliato le carte scientifiche su cui si fondava la nostra falsa sicumera di intangibili dalla morte, il sapere di virologi, immunologi, epidemiologi, tuttologi. Epidemia significa “epìdemos”, il giorno in cui il dio arriva nella città dell’uomo, che produceva sempre più in fretta per consumare, e consumava sempre più in fretta per produrre. All’improvviso il lockdown ha capovolto la situazione; abolito il pendolarismo tra casa e ufficio, eliminati gli incontri con amici e clienti, il coronavirus sterminatore ci ha inchiodati a mesi di improvvisa inevitabile lentezza, ci ha costretto ad ammettere la differenza tra necessario e superfluo, consistente e futile, ad amare anche le cose minime, quelle che i poeti scovano senza bisogno di un lockdown. “Benedetti siano gli istanti – e i millimetri – e le ombre delle piccole cose” invocava F. Pessoa.
Se poi la velocità finisce per infiltrarsi nella “sfera alta” dell’attività umana, nei gangli più vitali della vita pubblica e dei rapporti umani, allora può capitare, come è avvenuto intorno agli Anni ’70, che alchimie dialettiche abbiano partorito una deriva politica, che in breve produsse da parte di reperti archeologici di un Giurassic Park accampato nell’area di Montecitorio e di Palazzo Madama, un carosello di governi nati ed estinti come meteore.

Dal febbraio al luglio 1976 cinque governi affidati ad Aldo Moro caddero in modo non indolore. Dal 1994 al 2021, confermando i corsi e ricorsi storici vichiani, otto governi evidentemente privi di una efficace programmazione per la vita dello Stato, non cessano di lasciarci tuttora allibiti e sfiduciati.
Allora, nel 1973, riscoprimmo Jorge Luis Borges insolitamente intento a spiegare “l’aporia” o paradosso storico di Achille e la tartaruga, formulato da Zenone di Elea nel V sec. a.C. Achille corre dieci volte più svelto della tartaruga e le concede dieci metri di vantaggio. Achille percorre quei dieci metri ma la tartaruga percorre un metro; Achille percorre il metro e la tartaruga un decimetro e così via all’infinito, di modo che “il pie’ veloce” non raggiungerà mai la tartaruga.

Più chiaro l’assunto nel 1975 di Bruno Lauzi in “La tartaruga”, canticchiata da milioni di italiani. Qui la morale è trasparente: se corri troppo non ti godi la vita. La tartaruga un tempo correva come un razzo, ma un muro la fermò e dovette rallentare; andando piano trovò la felicità: un bosco di carote, un mare di gelato,
un biondo tartarugo, subito sposato
.
Oggi a una riflessione sui discutibili modi di organizzare il nostro tempo, invitano numerosi saggi in libreria ed anche film dai temi inediti e coraggiosi. A stretto giro di tempo sono usciti nei cinematografi due pellicole, che sembrano un puntuale elogio della lentezza. Mohamed Amidi ci ha consegnato: “In viaggio con Jacqueline” e David Linch “Una storia vera”.
Nel primo un allevatore viaggia con una mucca da una remota cittadina algerina a Parigi per far partecipare l’animale alla Fiera dell’Agricoltura. Nel secondo un contadino si reca dallo Iowa al Visconsin a bordo di un mietierba obsoleto e scassato a cui ha applicato una “chiocciola” per le emergenze e per riposare.

Il filo conduttore tra i protagonisti è il loro ruvido e indigeribile carattere che nei loro lunghissimi viaggi, dalla pluralità dei fortuiti incontri con una diversa umanità, si smusseranno, riconcigliandoli con i propri familiari e assicurando un happy end alle storie. Originalissimo, premiato a Cannes con il Grand Prix della Giuria (2021) è “Scompartimento n. 6” del regista finlandese Juho Kuosmanen, ambientato tra Mosca, San Pietroburgo e Murmansk. Una giovane studiosa di archeologia e un giovane operaio, ambedue naufraghi da una vita squallida e bara, viaggiano su un treno lentissimo per giorni e giorni nella neve, si scambiano empaticamente le proprie esperienze esistenziali. Alla fine del viaggio la vita di ambedue sterzerà da quelli che sembravano ormai binari prefissati verso direzioni inesplorate. E sarà una nuova epifania.
In un mondo che corre vorticosamente, il problema di riscoprire i vantaggi di una civiltà informata alla reflessività e al pensiero lento, si affaccia alla mente con prepotenza come una meta necessaria del pensiero.
Andare controcorrente non è facile anche se seguire il gregge può essere triste e offensivo per il proprio cervello e produrre insoddisfazione fino ai sintomi della depressione.
Il filosofo Seneca – I sec. a.C. – nel “De vita beata” scriveva: “Nihil ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur antecedentum gregem” (A nulla dunque bisogna badare di più che non seguire come pecore il gregge che ci precede). Difficile, ma bisogna provarci.
Da ultimo potrà convincerci alla lentezza il sommo poeta nella Divina Commedia, Purgatorio, canto III, vv. 10 e segg.:
quando li piedi sui lasciar la fretta
che l’onestade ad ogni atto dismaga
la mente mia che prima era ristretta

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